Non ci posso credere!
I ragazzi si riprendono immediatamente ma l’umore è
cambiato. Potrei piangere o, forse, è solo una mia associazione perché sento
delle gocce sulla faccia, piove, pure.
Ho pregato per arrivare qua e mai avrei pensato di farlo
pure per tornare giù.
Si, ho pregato
perché, ad un certo punto, restare appeso con le dita gelate sulla parete
bagnata per me era un miracolo.
Che poi io l’ho notato, la gente in montagna bestemmia
quando fa fatica ma quando ha paura no. Quando ha paura, tace e quello che
pensa è affar suo e lo si può solo immaginare.
Io ho pregato.
Poi è sorto il sole e non ci ho più pensato, ora piove.
Sarei quasi confortato dallo scorgere una traccia di
scoraggiamento, un piccolo segno di cedimento, in fondo ci starebbe bene pure
una bestemmia.
Perché non è mica possibile!
Abbiamo scalato per otto ore fino a qua, ci siamo pure fatti
una foto e nonostante, non fosse la vetta eravamo felici, anche se io non
sorrido.
Eravamo pronti a scendere, invece niente.
Il sentiero è sparito sotto la neve, a giugno la neve.
Sulla cengia, all’ombra, si è formato uno scivolo che punta
dritto verso un volo di forse 500 metri.
Indietro non possiamo tornare.
Provo con Steve: “Brutta storia eh?” Lui non fa una piega
“Inconvenienti di giugno” mi fa e senza neppure alzare la testa prende a far
giù la corda di nuovo.
Stanno già mettendo in atto un piano, non chiedono il mio
parere ma confidano che io sia pronto a seguirli..
Neppure io do segno di sconforto.
Ecco il piano: Paolo va per primo, usa il martello come
picca, a circa un terzo pianta un chiodo. alla cascata, alla fine del nevaio,
piazza un altro chiodo, si assicura e recupera Flavio, pianta un altro chiodo, recupera
me e chiude Steve.
Poco fa, scherzando, Flavio ha indicato delle nicchie nella
parete, bivacchi di fortuna.
A metà nevaio Paolo urla: “Ma cazzo nessuno che mi fa una
foto??”
Vanitoso, però una foto ci sta. Tanto non ho niente da fare.
Parte Flavio. Batte una traccia più alta, alcuni pezzi di
neve gelata si sono staccati al primo passaggio e sono volati giù sfaldandosi
in volo ben prima di toccare terra.
Tocca a me.
Non ho il martello io, non ho neppure dei guanti con me così
uso le mani.
Le infilo verticali nella neve ghiaccia. Prima una poi
l’altra, scarpone-scarpone, mano-mano, dentro e fuori. Tempo pochi metri e non le
sento più, arrivo al chiodo, cerco di non fare caso alla voragine vertiginosa
che intravedo tra i miei piedi. Da lontano sembrava più facile. Proseguo.
Ho i piedi zuppi perché non sono veri scarponi i miei e la
neve entra dappertutto ma non c’è nessun problema.
Intanto Flavio recupera, arrivo sotto la cascata e mi passa
il martello di Paolo: “Cava su tutto!” Mi fa, serio. E’ uno di quei tipi che
non sorride quando è concentrato, mi guarda come se gli avessi appena strisciato
l’auto. Io sono in grado di sorridere praticamente sempre ma non lo faccio
quasi mai per cui paio sempre incazzato.
Mi metto a smartellare per togliere il chiodo, ormai le mani
sono congestionate, fatico a colpire il chiodo, colpisco la roccia più volte con
le nocche, del sangue, non sento niente, di sorridere non mi viene più.
Poi mi giro e vedo Steve che lotta per togliere il chiodo
rimasto ancora all’inizio del nevaio, nessuno va abbandonato. Lo guardiamo camminare,
sicuro ci raggiunge sorridendo sotto la pioggia, con il chiodo appeso al
fianco.
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