Sono contento alle
mie spalle il fiume scorre nella valle tra gli alberi come un nastro d’argento
perduto tra fili d’erba, di fronte a me la roccia compatta, grigia, è scaldata
dal sole.
Mi lego, salgo,
supero facilmente la parte appoggiata e quella verticale. Quando si fa
strapiombante mi fermo.
Le prese si
sono fatte piccole, le dita si stancano. Alterno la presa, cerco di vedere il
passaggio successivo ma non riesco. Nonostante aderisca alla parete anche con
la faccia, sento la forza della gravità avere la meglio.
Le mani
riprendono a muoversi tra le tre prese.
Da giù salgono
i suggerimenti. La mia difficoltà è evidente. Mi hanno indicato la via come
facile, ci tengo a non sfigurare.
Vedo la parte
più esposta, forse richiede una forza che non ho. Per la prima volta mi viene il
dubbio di non essere in grado di fare la via.
Sento una
fitta allo stomaco. Inizio a scoraggiarmi e mi sembra che davvero non ci siano
possibilità. Chiedo a chi mi assicura di bloccarmi.
Ormai sto azzerando
spudoratamente, l’idea di fare bella figura è andata, m’interessa soprattutto terminare
la via senza dover chiedere aiuto per recuperare il materiale.
Allungandomi raggiungo
la successiva piastrina, piazzo un rinvio e ci infilo la corda, tutto mi sembra
sempre più difficile.
A destra non
vedo possibilità così mi lascio sedurre da un piccolo appoggio sulla sinistra, ottengo
soprattutto l’effetto di allontanarmi ancora di più dall’ancoraggio. Ormai sono
quasi tre metri a sinistra del chiodo.
Se dovessi
cadere ora, farei un pendolo incontrollabile. Provo a rientrare non ci riesco e
capisco che questa possibilità è persa.
Non posso più
farmi mettere in sicurezza.
All’altezza
del fianco destro c’è una piccola svasatura che riesco a raggiungere con la
punta del piede, assecondando l’impulso irrazionale di salire comunque sia.
Ora ho il
ginocchio destro all’altezza del petto e il piede sinistro, quello su cui sono
appoggiato, si sta scaricando. Sento una voce:“ Cazzo…cazzo…” E’ la mia.
L‘equilibrio
si sta modificando a favore del piede destro, mi sono pure alzato rispetto alla
piastrina, ora è circa un metro e mezzo sotto di me e tre metri a destra.
Respingo in
fondo la paura.
Mi attacco
disperatamente a due insignificanti rughe ricoperte di una sorta di lichene
scuro che al contatto con le dita si sgretola e come sabbia mi cade sul viso.
Nessuno ha mai
pensato di passare di qua.
Sopra di me la roccia è omogenea come una colata di
cemento tranne che per un punto
più su dove pare che sia rimasta scoperta una piccola cavità.
Irraggiungibile,
a meno che non mi alzi in equilibrio unicamente su di un piede appoggiato e prima
di perdere l’equilibrio riesca ad infilare la mano nella roccia.
Sempre che la
cavità non si riveli solo un ombra.
Non me la
sento.
Le
imprecazioni si fanno più fitte.
Intanto l’equilibrio continua a
modificarsi, i continui aggiustamenti non lasciano alle braccia il tempo di
riposare. Non so cosa dire alla mia compagna.
Non si sentono più voci, solo il
rumore delle auto lungo l’autostrada.
La gola mi si
è seccata e la polvere di lichene minaccia di entrarmi negli occhi.
Mi sento solo e
un molto stupido.
Punto tutto
sul piede dx, lo carico al massimo ma come un acrobata che cerca di salire su
una fune tesa troppo in alto non riesco.
Riprovo. la
gomma della scarpetta pressata sulla roccia tiene. Mi alzo con le braccia aperte e ringhiando infilo la mia mano
nella roccia rassicurante.
Da giù i miei
compagni gioiscono, forse non ero del tutto solo.
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